L’Ultima Cena. Non nell’orto degli ulivi, ma dietro le porte di un palazzo signorile, all’interno di una sala dagli alti soffitti decorati, con un viavai di valletti carichi di cibarie. E intorno a una tavola riccamente imbandita, cui Gesù e i discepoli fanno quasi da cornice.
Sulla tovaglia e in larghi piatti da portata, le testimonianze di un’abbondanza e di una varietà alimentare e agricola coeve alla realizzazione dell’opera, quindi tardo-settecentesche. L’Ultima Cena del Sacro Monte di Varallo, diorama in scala 1:1 abitato da statue-manichino quattrocentesche in legno rivestite di stoffa gessate e dipinte, è al tempo stesso sacra rappresentazione e spaccato di vita.
Grazie all’umanità e al potere del cibo condiviso, coloratissimo e realistico, ecco uno sguardo su una scena educativa e straordinariamente ricca di suggestioni.
C’è l’uva, l’uva Nebbiolo, riconoscibile. Ci sono frutti freschi impilati a piramide: pere, mele, fichi maturi, le ciliegie asprigne che nella valle chiamano i sarisöi. C’è una grossa fetta di formaggio, così straordinariamente simile alle tome valligiane. Ci sono uova sode – l’uovo, prefigurazione simbolica della resurrezione. Immancabili, ci sono pani di segale sparsi, proprio quei duri pani montanari e ci sono grossi pesci, apparentemente belle trote di fiume su vassoi. Ci sono anche gamberi, spesso presenti nei Sacri Monti, piatto quaresimale. E ci sono noci, scorta preziosa, frutto oleoso, nutriente, che dà un suo olio.
Questa è la rappresentazione che ci restituisce il Sacro Monte di Varallo nella cappella XX. Che non è una cappella immersiva, di quelle che il visitatore percorre quasi sfiorando i personaggi, ma un affaccio dietro una finestra a griglia che solo eccezionalmente viene aperta. Altrimenti, di solito, si è destinati a vedere e vivere questa tappa del pellegrinaggio stando fuori, quasi esclusi dalla scena, meditabondi e verosimilmente affamati.
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